Enrico Ginelli
Psicologo-capoterra.it

Autodiagnosi: possiamo diagnosticarci da soli?

Diagnosi in Psicologia: un mondo complesso

Questo articolo nasce dall’esperienza vissuta sia da “civile” sia da professionista del settore. Sento e leggo sempre più frequentemente di persone che, a torto o ragione, vanno a declamare i più svariati disturbi mentali, auto-attribuendoseli. Il mondo sta veramente impazzendo, le statistiche stanno impennando, o c’è qualcosa di più sfumato alla base del fenomeno? Facciamo chiarezza.

“Io ho scoperto da poco di essere X, guarda questo spiega tutto, l’ho scoperto da poco sai?

Sostituire liberamente X con: depressione, ansia, autismo, ADHD, disturbo bipolare, narcisismo, sociopatia e chi più ne ha più ne metta. X poi si applica talvolta anche nei confronti di terze persone, ma di questo parleremo in un altro articolo. Possiamo quindi ricorrere all’autodiagnosi e diagnosticarci dei disturbi mentali da soli?

Molte di queste persone, purtroppo per loro, non hanno mai visto un professionista sanitario, prima di produrre la propria personalissima etichetta. Un pot-pourri di termini, un melting pot di disfunzioni, calderone inequivocabile e spesso indiscutibile che si deposita lentamente alla base del nostro essere come un corvaccio maligno sulla nostra spalla. Questo corvaccio però stranamente lo accarezziamo e nutriamo quotidianamente con amore.

Eppure la diagnosi è un affare estremamente complesso. Ci sono basi epistemologiche e storiche per ogni disturbo, ogni metodo diagnostico, infine per ogni cura. Non si fa su due piedi, non si fa dopo aver letto un libro (o dieci!), né dopo aver visto un film. La diagnosi comporta conseguenze importanti nella relazione terapeutica del paziente, è un momento chiave e per questo va affrontato con delicatezza, conoscenza e rispetto per la materia e per la persona. Per questo serve un professionista per porre diagnosi, e per questo l’autodiagnosi andrebbe evitata sempre come la peste. Pensate che persino un professionista – psicologo o psichiatra – non dovrebbe mai fare diagnosi su sé stesso.

Autodiagnosi che vai…

Viviamo in un’epoca in cui i social media sembrano incoraggiare l’autodiagnosi: da Tiktok a Instagram, è facile trovare video e post che elencano i sintomi di vari disturbi mentali, spesso in modo semplicistico. Questa tendenza ha reso la psicologia e la salute mentale accessibili e, in parte, anche meno stigmatizzate; tuttavia, rappresenta anche una spada a doppio taglio. Da una parte, favorisce la consapevolezza e l’informazione; dall’altra, può spingere persone a cercare risposte rapide e superficiali a questioni molto complesse.

Le piattaforme come Tiktok offrono brevi frammenti di informazioni, a volte basati su studi reali, altre volte meno. Uno studio del Journal of Medical Internet Research sottolinea che il consumo di contenuti brevi su piattaforme come Tiktok può influenzare negativamente la percezione dei propri sintomi, alimentando errori interpretativi.

Spesso, le persone sono mosse dal bisogno di trovare un senso alle proprie sofferenze e frustrazioni, sia nell’ambito delle emozioni interne sia delle relazioni con gli altri. È particolarmente comune tra i giovani, che stanno ancora esplorando la propria identità e hanno maggiore bisogno di appartenenza.

Per quanto possa essere allettante dare un nome a ciò che si sente, bisogna ricordare che non tutti i disagi o le difficoltà rientrano nei criteri clinici di un disturbo mentale. Un approfondimento su Psychology Today mostra come molti giovani cerchino etichette come meccanismi di coping, ma questo spesso li porta a ignorare il supporto professionale.

…Guaio che trovi.

Attribuirsi un disturbo mentale non è come identificarsi in un hobby o in un modo di essere: si tratta di un affare serio, con conseguenze potenzialmente gravi. L’autodiagnosi può portare a problemi significativi, e uno dei rischi più insidiosi è l’identificazione con il ruolo di “disfunzionante”. Sentirsi “quel disturbo” rischia di limitare la propria visione e la propria capacità di miglioramento, rinforzando l’idea di una personalità o di un’identità “difettosa” o “incurabile.” Questo blocco può trasformarsi in un ostacolo alla crescita personale e al cambiamento.

Inoltre, esiste il rischio della patologizzazione, ovvero il vedere ogni comportamento o emozione negativa come sintomo di una condizione clinica. Ciò porta a una “feticizzazione” del disturbo mentale, in cui la condizione è vista quasi come uno status o un tratto di moda. Anche se può sembrare inoffensivo, questo fenomeno può peggiorare la qualità della vita delle persone e distogliere dalla ricerca di soluzioni efficaci.

Per i più giovani – adolescenti e young adults – che ancora stanno costruendo la propria identità, questo può risultare particolarmente dannoso. Un articolo di Stateofmind.it sottolinea come la feticizzazione di disturbi mentali alimenti stereotipi e ostacoli alla cura.

C’è sempre un’alternativa migliore all’autodiagnosi

Perché ci sentiamo così attratti dal bisogno di autoetichettarci? Una diagnosi può offrire un senso di chiarezza, quasi come un’ancora per spiegare emozioni o esperienze che non riusciamo a comprendere. Ma non sempre è così semplice. A volte, questo bisogno deriva dalla tendenza a trasformare il desiderio di appartenenza e comprensione in una “malattia”. Etichettarci può sembrare una soluzione immediata, ma spesso porta conseguenze troppo gravi per essere trattata solo come “opinione.”

Lasciamo quindi ai professionisti della salute mentale il loro lavoro. Psicologi, psichiatri e terapeuti sono formati non solo per capire le sfumature diagnostiche, ma anche per aiutare a trovare soluzioni mirate. Affidarsi a un esperto non significa rinunciare alla propria autodeterminazione, ma piuttosto accettare un supporto che permette una conoscenza più profonda di sé.

Se ti senti confuso o sopraffatto, prendi il controllo e prenota una consulenza oggi stesso. Un percorso con un professionista della salutte mentale può essere il primo passo per trovare chiarezza, comprensione e fiducia.

Lettura consigliata: Diagnosi e destino di Vittorio Lingiardi